Ciao, bentrovato.
Continuiamo a correre sempre sulle lunghissime distanze. Dalla pazzia Backyard ci trasferiamo nel nord ovest italiano per un racconto emozionale vissuto a cavallo di un evento ormai storico come il Tor Des Geant.
Non si può definire una semplice intervista. E’ più un racconto a quattro mani, due mie e due di Mario, il vero protagonista. Atleta endurance, che si racconta attraverso le sue avventure, prima al Tor des Geants e poi al Tor des Glaciers. L’estremo delle corse estreme in montagna.
Buona lettura!
Settembre 2019
Mario è in gara da quasi sette giorni non stop. Solo qualche micro sonno per riportare il livello di attenzione ad un minimo vitale. Viaggia da ore con un gruppetto di sette corridori in caccia dell’ultimo cancello. Due opzioni: gloria o sconfitta. Il cancello è li a pochi minuti, l’orologio corre inesorabilmente più veloce dei loro piedi.
Per quasi sette giorni di gara non stop in cui ho macinato circa 400 km e 28000 dislivello positivo ci ho creduto veramente, fino in fondo, ho dato tutto quello che potevo e anche di più, mi sono sorpreso, ancora una volta, di quante energie possiamo tirar fuori quando si è fortemente determinati.
Ma purtroppo non è bastato!
Non è bastato ridurre le soste al minimo (in quei sette giorni di gara chiuderò occhio circa otto ore), non è bastato sopportare le fatiche e superare le crisi di sonno e di fame, non è bastato nemmeno il sostegno a distanza di chi mi seguiva.
Mi gioco tutto su quell’ultimo cancello orario che, già durante la pianificazione avevo classificato come “il più rognoso”.
Finalmente arrivo al rifugio Champillon il cancello orario però è già stato chiuso. 5 minuti.
Mi sale un brivido alla schiena.
Cerco un dialogo con i volontari per capire se magari si può tollerare, compensare, questo ritardo infinitesimale rispetto alle quasi 165 ore di gara già vissute. Non sono autorizzati a prendere nessuna decisione al di fuori del regolamento e il cancello rimane chiuso.
Nemmeno una lunga telefonata con la responsabile di gara sblocca la situazione, è come sbattere contro un muro di cemento. Il mio Tor des Glaciers 2019 purtroppo finisce lì.
Quando è nato il trail running? La corsa in natura è senza dubbio tra gli sport più antichi, ma il trail running come lo conosciamo oggi è qualcosa di molto recente. Nato negli States con le prime gare già negli anni ‘60 e ‘70, bisogna arrivare al 2012 in quel di Courmayer per vedere le prime regole stilate dalla nascente associazione internazionale di Trail Running, e solo nel 2015 entrerà di diritto nella federazione internazionale di atletica leggera.
Siamo nel 2010, e sempre a Courmayeur, nei primi giorni di Settembre si tiene la prima edizione del Tor de Geants. Un ultra trail estremo che prevede il periplo della regione valdostana, percorrendo le alte vie 1 e 2 per circa 330 km e un dislivello complessivo che supera i 20000 metri di salita.
Mario, atleta delle prime edizioni, non si lascia di certo sfuggire l’occasione e puntuale come le rondini a primavera si fa trovare pronto al nastro di partenza.
Settembre 2010
Ore 10:00 di domenica 12 settembre 2010: sono a Courmayeur per partecipare al del Tor Des Geants, prima volta al mondo che l’endurance-trail si manifesta in questo modo.
310 incoscienti sono pronti per questa storica prima edizione. 335 km e 24000 metri di dislivello percorrendo le alte vie 1 e 2 della Valle d’Aosta.
Di quei 310 presenti al nastro di partenza ne arriveranno al traguardo 164, tra cui, ovviamente anche Mario che in circa cinque giorni di gara non-stop chiuse quella incredibile prima volta. Quei cinque giorni di gara furono incredibilmente intensi, ricchi di forti emozioni, indimenticabili, stupendi.
Passano un bel pò di anni. Il movimento trail running sta spopolando con aumenti vertiginosi di eventi ed iscritti. Iniziano ad esserci i super campioni, quelli sponsorizzati, quelli che hanno il team al seguito, quelli che hanno i fotografi al seguito, quelli che hanno foto pazzesche su Instagram. Come spesso accade negli sport endurance, atleti e organizzatori, spinti dalla voglia di superarsi e di creare qualcosa di unico, aumentano distanze e dislivelli.
Come se i chilometri e il dislivello del Tor de Geants non bastassero per renderlo estremo, gli organizzatori ben pensano di far nascere il fratello maggiore. Siamo nel settembre del 2019 e in concomitanza con l’ormai quasi decennale Tor, parte per la prima volta il Tor Des Glaciers. Se il primo era un trail estremo, questo è assurdo! 450 chilometri, più di 30000 metri di dislivello e un limite massimo di 190 ore per concluderlo (meno di 8 giorni, circa 60km e 4000 metri di dislivello al giorno). Il tracciato ricalca le alte vie 3 e 4, più estreme e selvagge delle prime due con quote ben più alte e numerosi passaggi tecnici. Non si possono iscrivere tutti, requisito fondamentale è l’aver terminato almeno una volta il Tor classico. Mario quel requisito ce l’ha, quindi…
Febbraio 2019
Alle 12:00 in punto del venerdì 1° febbraio 2019 sono davanti al computer perchè aprono le iscrizioni on-line direttamente sul sito dell’organizzazione. Compilo la pagina con i miei dati personali e poi, carta di credito alla mano, effettuo il pagamento.
E’ il click-day, il “mezzogiorno di fuoco”, solo i primi 100 passano, o sei veloce oppure sei fuori (e lo saranno in molti).
Tutto si consuma in pochissimo tempo, nessuno immaginava una corsa al pettorale così frenetica per una gara così impegnativa.
Ma siamo nel 2019, quasi 10 anni dopo quella magnifica prima edizione del Tor des Geants che determinò la nascita dell’endurance-trail e probabilmente molti appassionati di questo sport (io compreso) non stavano aspettando altro.
In 126 secondi i 100 posti a disposizione vanno letteralmente a ruba.
Mi arriva la mail di conferma: sono dentro, ci sono, sarò al via, per fortuna o purtroppo, di questa ennesima prima edizione, di una gara che probabilmente farà la storia delle gare estreme in montagna!
Domenica primo pomeriggio del 1° settembre 2019, mancano 5 giorni alla gara.
Giro in bici con gli amici. Una banale distrazione in discesa e in una curva mi schianto sulla parete di roccia. Striscio tutto il fianco destro con botte ed abrasioni varie (mano, spalla, gamba, ecc…)..
Niente di rotto, per fortuna, ma la mano destra è messa proprio male. Tagli profondi e abrasioni mi fanno perdere molto sangue.
Corro al pronto soccorso dell’ospedale di Vicenza per una prima medicazione. Ai medici dico subito che ho una gara importante da fare. Il primario di chirurgia incredulo a quelle affermazioni e con una buona dose di ironia mi rincuora dicendomi che una maratona dovrei riuscire a farla in quelle condizioni.
“In realtà è una gara di corsa in montagna di 450 km”.
Sbianca, balbetta qualcosa di incomprensibile e si deve sedere.
Decidono di non mettere punti perchè c’è il rischio che possa partire qualche infezione interna durante la gara. Mi bendano. Dovrò usare il disinfettante lasciando che la ferita guarisca lentamente e per questo dovrò portare in gara mezza infermeria per rifarmi le medicazioni da solo. Sarà il mio compito giornaliero: medicazione una volta al giorno, meglio se due.
Capisco che questo sarà un grosso problema perchè, oltre a farmi perdere tempo prezioso, mi limiterà parecchio l’uso della mano con i bastoncini. Quello che più mi preoccupa maggiormente sarà l’uso della mano nei tratti attrezzati con corde e catene fisse.
Nonostante tutto non abbandono l’idea di partecipare alla gara anzi, paradossalmente, in situazioni come queste (già capitate in passato) trovo dentro di me ulteriore determinazione quasi come a sfidare il destino che mi ha riservato questa spiacevole sorpresa.
Devo resettare e riprogrammare in fretta e furia tutto l’assetto di gara testato da mesi per far fronte a questa evenienza.
Tutto quello che è abbigliamento e attrezzatura sportiva per la montagna è sparso per tutta la casa. Il meteo prevede sul percorso neve in quota e siccome soffro il freddo alle mani mi procuro un paio di guanti pesanti extra large dove riuscire ad infilare le dita medicate.
Presentarsi alla partenza così conciato sarà già una vittoria, ogni metro successivo sarà una piccola conquista che messe in fila una dietro l’altra potrà portarmi chissà dove.
Non succede…ma se succede?
Quel che è successo l’avete già letto. Mario non riuscì a superare l’ultimo cancello per 5 maledetti minuti. Sacrifici, sopportazione della stanchezza e del dolore resi vani da un ritardo insignificante. Queste sono le regole del gioco conosciute fin dalla partenza e nulla si può fare. Lo sport è anche questo, soprattutto questo.
Un gran respiro.
L’ho capito solo dopo che la parte più razionale della mia mente non aspettava altro, un motivo, una scusa, per convincermi a porre fine a quella immane sofferenza e ora, cantando vittoria, mi fa sentire, anche, stranamente sereno e rilassato.
Mi illudevo.
La notte stessa mi sveglio all’improvviso.
Un sentimento di rammarico e di delusione mi devastano, non riesco a credere che sia successo davvero. Ho accarezzato un sogno, poi sfumato. Smarrito come il bimbo derubato del suo gelato.
Ho pregato perché fosse solo un brutto sogno, ed invece era la dura realtà.
Ripartire non è semplice. Ripartire dopo essersi consumati cercando un sogno implica una forza di volontà fuori dal comune. Rimandare la nuova partenza per cause esterne è ancora più logorante.
Se per Mario lo scopo era chiaro, chiudere la vicenda rimasta aperta, trovare le motivazioni per inseguire un obiettivo talmente difficile non è cosa da tutti.
Secondo lo psicologo dello sport Trabucchi, la passione è qualcosa che si deve trasformare in abitudine. Non può essere composta solo da decisioni giornaliere, ma deve essere supportata da una relazione interessante che ci porta ad amare quel qualcosa. Solo così si può arrivare ad una gestione consapevole della fatica, degli stress che si generano nell’inseguire un obiettivo.
Una gara di endurance è una continua altalena tra fattori di stress e fatica e momenti estasianti che spingono ad andare oltre.
Rubando le parole a Baricco, potrei definire l’impresa di Mario come una “spettacolare follia”.
Follia e senso del limite sono due concetti che nel mondo dello sport estremo vanno di pari passo. Noi gente comune spesso definiamo folli coloro che inseguono uno stato di benessere facendo fatiche fuori dal normale, sopportando avversità non obbligate.
Tutto questo generalmente confluisce nella fatidica domanda “Ma chi te lo fa fare?”.
Domanda retorica, vuota, che potrebbe essere posta a chiunque faccia qualcosa che fuoriesce dal nostro recinto della conoscenza. Tornando a rubare parole, la corsa può essere vista come uno strumento in grado di rigenerare quote di libertà, in grado di rimuovere blocchi e paure quotidiane.
Riconoscere il limite, trovare la voglia di superarsi, approfondire il necessario conoscersi per posizionare un confine tra follia e rispetto per la vita: la difficoltà sta proprio in questo. La definizione di limite è relativa e non certo assoluta e chiunque può superare i propri. Il problema di fondo è che non tutti conoscono i propri confini d’azione, soprattutto quelli estremi, quelli che non dovremmo mai superare.
Ci sono cose che nella vita ti lasciano un segno, altre invece che ti lasciano un solco. Quando si ha la fortuna di partecipare per la prima volta al mondo ad eventi come il Tor e lo si vive nel migliore dei modi, nulla sarà come prima perché il cuore viene marchiato a fuoco.
Le lacrime all’arrivo (ammesso che se ne abbiano ancora) sono intrise di gioia ma anche di tristezza perché si sa che quell’avventura, che potrebbe essere unica, è finita e piuttosto che tornare alla frenetica normalità quotidiana si vorrebbe andare avanti ancora per giorni e giorni con la sola paura di svegliarsi nel proprio letto e scoprire che era solo un bellissimo sogno.
Il ritorno alla normalità è difficile, lento e spesso la mente si scollega dal presente per catapultarti ancora in quei ricordi passati, su quelle montagne e sentieri, in mezzo a tutti quei volontari capaci di darti l’anima pur di aiutarti.
Capita all’improvviso, e senza accorgersi di ritrovarsi inebetito e apatico davanti allo schermo di un computer al lavoro, oppure fermo ad un semaforo, o con la forchetta in mano.
Per un pò di tempo ci si trasforma in un disadattato sociale. Solo dopo qualche anno, con ogni probabilità, ti verrà diagnosticata una nuova malattia: il “Mal di Tor” che non ha né medicine né cura, fortunatamente.
Il Tor des Geants non l’ho mai più rifatto, nella mia testa volevo conservare solo quel bellissimo ricordo, rifarlo non mi avrebbe regalato le stesse emozioni ed avevo addirittura paura di rovinarle. Niente è come la prima volta.
Per quasi 10 anni ho vissuto di rendita, il solo ricordo di quella prima edizione mi appagava e riusciva ancora ad evocarmi forti emozioni.
E’ un po' come il primo amore della vita che non si scorda mai e ancora oggi al pensiero mi rinascono quelle particolari emozioni.
Quando concludi l’endurance-trail più duro al mondo è difficile poi ritrovare le forti motivazioni per partecipare ad altre gare ultra-trail. Negli anni successivi ho cercato le stesse emozioni in altri sport di endurance come l’ultracycling, l’ultramaratona e l’extreme triathlon di cui conservo tutt’ora dei bellissimi ricordi.
Non è importante lo sport che fai per raggiungere certi livelli emozionali profondi perché ti basta l’ingrediente fondamentale, la fatica, che amplifica e cementa nella tua mente quello che stai facendo e le emozioni che stai provando in quel preciso istante.
Come un innamorato lasciato senza motivazione dalla donna dei sogni, Mario non riesce a staccare e a pensare positivamente a quanto accaduto, finché non trova l’amuleto, un segnale di svolta, quel qualcosa che lo riporta alla realtà dei fatti e lo rifornisce di nuove e positive energie per ricredere nell’impresa possibile.
Inizialmente ho cercato di metabolizzare la sconfitta cercando in tutti i modi di togliermi quel pensiero. Per molto tempo non c’è stato nulla da fare, la negatività tornava a galla. Puoi raccontare tutto quello che vuoi ma dentro di te sai benissimo che la verità è un’altra e che il rammarico e il dispiacere è enorme.
Non volevo più saperne del Glaciers, evitavo l’argomento con gli amici curiosi, non mi interessavo delle notizie, il solo ricordo di tutta quella sofferenza fatta invano ancora bruciava, non mi faceva star bene. La spina nel fianco era sempre lì, non se ne voleva andare.
Un giorno, guardando quella foto, ho capito il messaggio che la mente mi stava sussurrando ma che non riuscivo ancora a decifrare tanto era il frastuono generato da quel rammarico.
Ho capito che tutta la fatica e sofferenza racchiusa in quella foto doveva avere un seguito, non poteva rimanere nel vuoto, meritava un finale diverso.
Attacco al muro quella foto per ricordarmi ogni giorno quale sarà il mio compito e dopo tre lunghi anni travagliati tra lavoro e infortuni sono di nuovo sulla linea di partenza con qualche acciacco e anni in più sul groppone.
Mentre lui, il Glaciers, nel frattempo non è cambiato ed è lì ad aspettarmi per rivelarsi ancora una volta a noi comuni mortali quello che è sempre stato e che sempre sarà: duro e spietato, con quelle sue salite e discese difficili, con quei suoi tratti tecnici e pericolosi, con quei suoi cancelli orari strettissimi che ti concedono pochissime soste.
Settembre 2022
20:00 di venerdì 9 settembre.
Courmayeur.
Sono di nuovo ai nastri di partenza più determinato che mai.
Ora il Glaciers lo conosco meglio, ho fatto i compiti a casa, ho rielaborato i tempi e i passaggi, so dove posso limare qualcosa e dove invece non devo rilassarmi. In questi ultimi anni ho cercato percorsi più impegnativi dove allenarmi senza lasciare nulla al caso con l’obiettivo di farmi trovare pronto alla resa dei conti.
La battaglia è durissima, e questo lo si sapeva, a suon di salite e discese su pietraie, crisi di sonno e di fame, dolori alle ginocchia e vesciche ai piedi, un tibiale in fiamme, bufere di neve a 3000 metri di notte che arrivano all’improvviso, compagni di viaggio annientati dalla fatica, altri invece che resistono e con loro si uniscono le forze per andare avanti.
Un groppo in gola mi assale quando supero quel maledetto ultimo cancello orario.
Nei momenti difficili in cui esausto vorrei solo buttarmi su un letto e svegliarmi 15 ore dopo, ripenso sempre a quella foto. Ho sofferto troppo per rischiare di fallire di nuovo. Raschio il fondo del barile per trovare quella rabbia e determinazione per andare avanti per non dover ritornare mai più.
L’arrivo in gare come queste è solo l’ultima pagina di un diario di viaggio. Non mi rendevo conto di quello che ero riuscito a fare, pieno di pensieri, frastornato, spaesato..
Le vere emozioni invece le raccogli durante tutto il viaggio, spesso nei momenti solitari, affascinato dalla natura che ti circonda, commosso, pensando a chi ti sta aspettando a casa, ai sacrifici che hai fatto ma anche a quanto sei fortunato nel poter vivere qualcosa di straordinario e indimenticabile che ti rimarrà dentro per sempre.
Le emozioni che si provano sono sufficienti a giustificare qualsiasi follia e ora che tutto è finito e i conti in sospeso sono chiusi, ogni cosa prende il suo giusto posto e significato. Davanti a me non c’è più quel macigno che mi impediva di guardare oltre. Quell'orizzonte è finalmente libero per essere riempito di nuove sfide e nuove avventure!
Ho bisogno di queste avventure, ho bisogno di questi bagni di libertà dove la fatica ti spoglia di tutto quello che è superfluo e fa emergere solo quello che è essenziale.
Ho bisogno di queste avventure per trovare la risposta alla domanda “Ma chi te lo fa fare?”.
Ho bisogno di queste avventure per vivere senza rimpianti questa vita.
Ho capito che serve l’umiltà per accettare le sconfitte, a cui non ero abituato, ma serve anche l’orgoglio per rimettere insieme i pezzi rotti e rialzare la testa altrimenti non si impara la lezione.
Ho capito che i conti in sospeso prima o poi vanno saldati altrimenti rimangono nella coscienza.
Ho capito che se una cosa non la puoi evitare l’unico modo è affrontarla, consapevole che il rischio di fallire nuovamente è altissimo.
Ho capito che abbiamo il diritto di cancellare anche un brutto ricordo, una volta imparata la lezione, sovrascrivendolo con uno più bello.
Non sempre nella vita questo è fattibile e soprattutto questa possibilità non te la regala nessuno.
A nulla serve avere il biglietto in mano se poi non trovi il coraggio di salire su quel treno pieno di incognite.