E’ passato un anno dalla prima edizione. Il parcheggio si ripopola e torna a vivere come un prato ai primi tepori primaverili.
Triplicati gli esseri viventi al via. L’estremo attira sempre più in questo periodo di annoiata instabilità. Sotto le pensiline solo posti esauriti: camper, roulotte, tende, materassini, sedie e atleti in ordine sparso. Più di cento runner si sfideranno lungo lo stesso argine e contro argine dello scorso anno sotto un sole che scalda ancora nonostante novembre sia alle porte. Se poco più di cento sono gli atleti, quasi altrettanti sono i componenti delle varie “famiglie” di supporto. Strana cosa questa. Per fare cose estreme lungo argini resi pericolosi dall’eventuale presenza di grossissime nutrie, serve un aiuto da casa. Non tutti, ma molti lo sfruttano.
Ed è qui che cade il mio obiettivo.
Attese cadenzate dalla presenza o assenza dell’atleta.
L’attesa inizia prima della partenza senza frenesia. Non vi è necessità di scattare allo sparo dello start, la vittoria non si gioca sul filo di lana, sarà un affare lungo e logorante. Una volta partiti, inizia la prima attesa piena di pazienza priva di aspettative. L’aspettativa la si conosce e si sa anche la durata dell’attesa. Ogni famigliare sa quanto durerà l’attesa, sa quanto l’atleta ci metterà per tornare al punto di partenza e in questo sapere si consuma un’attività inizialmente frenetica di preparazione, sistemazione, organizzazione della sedia, poltrona, sdraio, materassino, tenda che ospiterà il runner durante quei minuti. Perché in fondo è una gara a staffetta tra chi attende. Il primo è il famigliare che poi passa il testimone all’atleta al ritorno al campo base: qui sarà lui ad aspettare, attendere il suono della campana che annuncia l’imminente nuova ripartenza. La sua attesa è più breve, ricca di operazioni ripetute in una maniacale sequenza. Liquidi, solidi, riposo, massaggi ripartenza. Il ritmo circadiano viene ridotto all’ora. Un’ora all’interno della quale si ripetono cose per la sopravvivenza sportiva, pena l’abbandono dalla gara. Il testimone è in una mano, mentre nell’altra c’è il bicchiere con il te. Le altre mani sono libere di operare, di preparare di somministrare il dolce o il salato, di accudire, di stimolare la volontà di non arrendersi. Scocca l’ora e il testimone passa nuovamente in mano al custode delle energie: si perchè mentre l’atleta corre al risparmio cercando di non andare mai fuori giri, il custode delle energie cerca a sua volta di prepararne di nuove, di efficienti, appetitose che soddisfino il palato e le sensazioni dell’atleta tornato. Una nuova ora scocca e un nuovo passaggio di testimone avviene sulla linea di partenza. L’attesa cronometrica è uno scalare di emozioni mano a mano che si avvicina il tempo di rientro. Ci sono due vie: prima del previsto o dopo del previsto. Non è detto che il prima sia meglio del dopo. Il prima può nascondere un azzardo, il dopo una gestione più accurata delle energie, oppure il prima può esser sinonimo di buone sensazione, opposte alle brutte sensazioni che si sposano con il dopo. E tutto questo deve essere decifrato da chi ha il testimone in mano perché spesso il dialogo è muto, fatto di gesti, di sguardi di accenni, di umori captati. L’atleta spesso è centrifugato nel suo mondo, dal tenere a bada tutto quello che potrebbe inficiare il risultato finale e non pone attenzione alla comunicazione esterna, per questo il titolare del testimone fatica ancor più dell’atleta in quelle pause d’attesa. E’ una fatica emotiva ma che può logorare come e ancor più che chilometri e chilometri corsi a piedi.
Unite a tutto ciò la durata non definita di questa corsa massacrante: durata che nessuno conosce. Si possono fare ipotesi, ma sono talmente lontane dalla realtà che i fatti, spesso, contraddicono in toto quanto ipotizzato prima del via. Giro dopo giro, ora dopo ora, sono le regole sacre di chi affronta queste sfide.
A tutto questo vi sono i casi speciali, i solitari. Sono autonomi che sfociano nell’automa soprattutto dopo le ventiquattrore di gara. Gesti ripetitivi come l’incedere lungo lo stesso ripetuto anello percorso per enne volte alla stessa andatura. Procedono fino ad un crack, una rottura, un imprevisto che spacca in due la realtà. In un attimo tutte le certezze si fanno incertezze e tutto diventa inutilmente faticoso. Non è uno sprint, non sono cinque chilometri in più, non è l’ultima salita da scavallare stringendo i denti, no qui l’orizzonte è l’infinito, l’andare oltre finché ne rimarrà uno solo. Allora se il crack arriva, è devastante, è definitivo, rompe l’orizzonte infinito per tornare alla realtà della poltrona, della sedia, del materassino, del tabellone segna giri che in questo mondo equivalgono alle ore.
Ma osservare tutto con l’obiettivo in mano mi fa capire che quel crack non è in grado di spegnere completamente le braci che ardono dentro questi atleti. Spegne per un attimo la fiammella, quello si, ma al prossimo colpo di vento, le fiamme tornano a bruciare a rimettere in moto quel fisico stanco e logorato dai troppi chilometri percorsi.
E se l’unico pericolo fisico estremo che potrebbero affrontare è quello di un incontro ravvicinato con una nutria gigante del canale Bisatto, questi atleti riescono ad andare all’estremo interiore avendo la voglia di superarsi gara dopo gara, sfida dopo sfida con il solo intento di diventare migliori.
E chi regge quel pesante testimone durante le pause d’attesa è un aiuto indispensabile per poter far si che quell’atleta si possa superare, diventi migliore.
Questo lo capiscono loro, perché basterà un gesto, uno sguardo che io ricerco e spero di catturare, per far entrare anche il testimone nel magico mondo della sfida sportiva.
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